Revocatoria - Rimesse bancarie - Fallimento

2 Settembre 2021


La Corte d’Appello di Milano, con la sentenza n. 680/2020 pubblicata il 28 febbraio 2020, si è espressa in tema di revocatoria delle rimesse bancarie ai sensi dell’art. 67, secondo comma, legge fallimentare.

Per semplicità, si riporta di seguito il testo degli articoli della legge fallimentare citati nella sentenza:

  • Il secondo comma dell’articolo 67 prevede che: “sono altresì revocati, se il curatore prova che l’altra parte conosceva lo stato d’insolvenza del debitore, i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili, gli atti a titolo oneroso e quelli costitutivi di un diritto di prelazione per debiti, anche di terzi, contestualmente creati, se compiuti entro sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento”,
  • con specifico riferimento alle rimesse bancarie, il terzo comma dell’articolo 67, lettera b), prevede che: “Non sono soggetti all’azione revocatoria: […] le rimesse effettuate su un conto corrente bancario, purché non abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l’esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca”;
  • infine, in merito alla quantificazione dell’importo revocabile, il terzo comma dell’art. 70 dispone che: “qualora la revoca abbia ad oggetto atti estintivi di posizioni passive derivanti da rapporti di conto corrente bancario o comunque rapporti continuativi o reiterati, il terzo deve restituire una somma pari alla differenza tra l’ammontare massimo raggiunto dalle sue pretese, nel periodo per il quale è provata la conoscenza dello stato d’insolvenza, e l’ammontare residuo delle stesse, alla data in cui si è aperto il concorso. Resta salvo il diritto del convenuto d’insinuare al passivo un credito d’importo corrispondente a quanto restituito”.

Passando ai fatti di causa, il Tribunale di Milano aveva accolto la domanda proposta dal Fallimento ai sensi dell’art. 67, secondo comma, legge fallimentare, revocando delle rimesse bancarie affluite sul conto corrente bancario intrattenuto dalla società fallita successivamente al giroconto “a sofferenza” del debito.

La banca ha pertanto proposto appello deducendo che il Tribunale non avrebbe tenuto conto del disposto degli articoli 67, terzo comma, lett. b) e 70 della legge fallimentare; in particolare, il giudice avrebbe errato sia nel non rilevare che nessuna delle rimesse impugnate poteva ritenersi consistente, in quanto, in particolare, nessuna superava la soglia del 10% del rientro effettivo, “indicata dalla giurisprudenza quale possibile indice del parametro della consistenza”, sia nel non tener conto del limite individuato dall’art. 70 l.fall., in forza del quale la condanna dell’accipiens deve essere in ogni caso contenuta nella differenza tra l’ammontare massimo raggiunto dall’esposizione debitoria ed il suo ammontare alla data del fallimento.

Preliminarmente all’esame del motivo di gravame nel merito, la Corte d’Appello si è occupata della verifica della sua ammissibilità ai sensi dell’art. 345 c.p.c.; si è infatti interrogata sulla natura dell’eccezione proposta dall’istituto di credito, in quanto contumace in primo grado; e cioè se si tratti di eccezione in senso proprio, sottratta al rilievo d’ufficio o di mera difesa.

A tal fine la sentenza richiama la: “nota sentenza n.1099/1998 delle Sezioni Unite Civili che ha stabilito che il regime normale delle eccezioni è quello della rilevabilità di ufficio, in funzione dell'assolvimento del compito primario del processo, di "servire all'attuazione di diritti esistenti e non alla creazione di diritti nuovi" ed ha confinato l'ambito della rilevabilità a istanza di parte ai casi specificamente previsti dalla legge, in cui singole disposizioni prevedano espressamente come indispensabile l'iniziativa di parte, nonché ai casi in cui la manifestazione della volontà della parte sia strutturalmente prevista quale elemento integrativo della fattispecie difensiva (come nel caso di eccezioni corrispondenti alla titolarità di un'azione costitutiva), dovendosi ritenere, negli altri casi, la rilevabilità d'ufficio dei fatti modificativi, impeditivi o estintivi comunque risultanti dal materiale probatorio legittimamente acquisito”.

Ad avviso della Corte d’Appello: “l’art. 67 l.fall. non riserva in modo espresso il rilievo dell’eccezione alla parte e l’allegazione dell’esenzione non corrisponde – come invece avviene nel caso del diritto di annullamento, di rescissione, di risoluzione – all’esercizio di un diritto potestativo del convenuto, da esercitare necessariamente in giudizio perché si verifichi il mutamento della situazione giuridica. A ciò si aggiunga che la norma, nell’elencare le ipotesi di esenzione, dispone che i pagamenti eseguiti a favore di determinati soggetti o in data circostanze “non sono soggetti all’azione revocatoria”, sicché sembra configurare un elemento negativo della fattispecie che, in quanto tale, ben può essere accertato dal giudice d’ufficio.

Con riferimento, invece, al terzo comma del medesimo articolo, la Corte d’Appello afferma che: “si deve dunque escludere che l’irrevocabilità del pagamento costituisca oggetto di un’eccezione in senso stretto, come già affermato, del resto, dalla giurisprudenza di legittimità in relazione all’art. 67, comma primo, considerato che “tutte le ragioni che possono condurre al rigetto della domanda per difetto delle relative condizioni di fondatezza, o per la successiva caducazione del diritto fatto valere, possono essere rilevate anche d’ufficio in base alle risultanze acquisite al processo, sempre che tale rilievo non sia impedito o precluso da specifiche regole processuali” (cfr. Cass. n. 11108/2007 e, nello stesso senso, Cass. n. 4528/2008)”.

Ciò nonostante, la sentenza afferma che l’appellante non può beneficiare di alcuna esenzione in quanto il debito della correntista fu girato “a sofferenza”, e tutte le rimesse impugnate furono eseguite successivamente al passaggio in sofferenza.

Di conseguenza: “ne deriva l’inapplicabilità tanto dell’art. 67, terzo comma, lettera b), che dell’art. 70 l.fall., in quanto norme destinate ad operare esclusivamente nei rapporti nei quali il correntista/debitore, effettuato un pagamento, abbia la possibilità di riutilizzare il denaro esistente sul conto e che, su tale presupposto, mirano ad evitare che versamenti funzionali a nuovi impieghi da parte del correntista o comunque seguiti da nuovi impieghi possano essere considerati pagamenti di per sé revocabili, esponendo l’accipiens al rischio di dover restituire ben più di quanto si sia risolto effettivamente a suo vantaggio. Se questa infatti è la ratio dell’esenzione stabilita dall’art. 67 l.fall. e della limitazione degli effetti della revocatoria prevista dall’art. 70 l.fall, ben si comprende come esenzione e limitazione possano operare solo in presenza di un rapporto continuativo che sia connotato in concreto – e non solo sotto un profilo nominalistico – dal meccanismo sopra descritto e mai, invece, in presenza di un conto aperto al solo scopo di consentire al correntista di ridurre l’ammontare del proprio debito verso la banca (cfr. nello stesso senso, App. Torino, n. 973/2017; Trib. Milano, n. 7589/2014)”.

Secondo la Corte, l’appello è infondato anche sotto un altro profilo, infatti: “l’effetto pratico di rimesse eseguite dopo la chiusura del conto corrente ordinario, venuta meno ogni possibilità per il correntista di disporre della provvista, non può che essere quello di ridurre l’esposizione debitoria, sicché non può essere comunque posto in dubbio che tutte le rimesse impugnate abbiano avuto in concreto l’effetto di diminuire tale esposizione in modo consistente e durevole (cfr. nello stesso senso, Trib. Milano, n. 7589/2014, sopra citata; Trib. Brescia, 29/4/2008, in Fall. 2008, 975 e Fall. 2009, 101), e ciò a prescindere dall’entità dei singoli accrediti”.

A seguito di tali argomentazioni, la Corte d’Appello di Milano ha rigettato l’appello avverso la sentenza di primo grado del Tribunale di Milano, confermandola.

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